Diego Miguel Mirabella è un giovane artista romano con radici siciliane. Nasce a Enna nel 1988 e successivamente si trasferisce a Roma, dove si diploma all’Accademia di Belle Arti.
A soli venticinque anni ha già esposto in numerose gallerie e musei di diverse città italiane. Fra un allestimento di una mostra e l’altra sono riuscita a incontrarlo per farci raccontare il suo lavoro.
Partiamo dal presente, l’ultima opera che hai realizzato è stata quella per la nuova galleria romana “Operativa arte contemporanea” all’interno del progetto Il peso della mia luce. Come sei arrivato a concepire il tuo lavoro per questo progetto?
Due dei lavori presentati per questa mostra sono delle strutture “architettoniche”, come delle pareti piegate, che accolgono rispettivamente una gomma policroma e delle lastre di vetro. Attraverso questo piegarsi si generano alcuni effetti come ad esempio degli angoli bui, degli antri visivi. Quindi nel creare queste pareti lo sguardo è come violato della possibilità di dirigersi verso un orizzonte altro. Lo stesso titolo
Un’innaturale indisposizione all’altrove, del più inedito dei lavori presentati, suggerisce questo mio pensiero: noi uomini siamo predisposti per natura a guardare sempre a un altrove e per risolvere uno dei nostri problemi più spinosi poniamo l’ancora su concetti come Dio, l’amore, l’infinito. Insomma categorie non pensabili, utilizzando un termine caro alla filosofia potremmo dire trascendenti. Io sono certo che esiste un modo altro di appropriarsi degli stessi concetti. Non dico rimanendo a casa ma almeno senza dover ogni volta uscire da noi stessi.
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D. M. Mirabella, Un'innaturale indisposizione all'altrove,
Installazione, 2013 |
Potremmo dire che il tuo lavoro si basa su un concetto fondamentale, quello dell’abbassamento dello sguardo. In cosa consiste?
L’abbassamento dello sguardo è proprio questa mia sorta di paradigma nei confronti di una modalità di affrontare lo sguardo delle cose. Per “abbassamento dello sguardo” intendo “un’innaturale indisposizione all’altrove”. L’uomo è stato abituato da sempre a cercare la verità e soprattutto a cercarla altrove, a compiere come un grande viaggio. Non penso che non sia importante viaggiare ma bisognerebbe sempre riaffermare passo dopo passo quello che può essere la verità, non andarla a cercare lontano ma riconfermare nel percorso il rapporto con noi stessi. Questo concetto sembra semplice ma in verità apre diverse riflessioni sul nostro comportamento, il nostro modo di affrontare gli eventi. Per me guardare è profondamente legato al pensare. Nessuno guarda una cosa senza pensarla.
Certo poi un pensiero può essere declinato infinite volte. Basta pensare alle grandi poesie d’amore: quante poesie d’amore sono state scritte da quando esiste il genere umano? Tantissime. Eppure ognuna è diversa dall’altra e ognuna è irripetibile e inappuntabile. Per questo conduco questa mia ricerca in modo quasi “schizofrenico”: non seguo un unico ordine formale, utilizzo sempre materiali e forme diverse, il legno, poi la polvere, i piedistalli. Non cerco mai di attenermi alla forma.
Ho un’idea principale e ho capito che quest’idea può essere espressa in tanti modi. In questo periodo della vita ho usato l’abbassamento dello sguardo. Da poco sto pensando che non esiste solo lo sguardo verso le cose ma anche verso l’altro e questo apre molti scenari.
I tuoi lavori sono in gran parte caratterizzati dall’elemento della “piega”. Si vede molto bene in una delle tue ultime opere, Degno. Come mai ricorre così spesso?
Piegare è uno dei modi che abbiamo per mettere in ordine le cose. Quando vogliamo far entrare le lenzuola nel cassetto non possiamo non piegarle. Ma le lenzuola piegate sono sempre lenzuola? Oppure è lo scopo a renderle lenzuola? Per me rimangono tali ma mi rendo anche conto che ogni cosa cambia, i disegni decorativi vengono spezzati, le dimensioni si sfalzano eccetera. Un disegno su carta subisce gli stessi effetti così come la gomma policroma piegata, accolta anch’essa da una lastra di MDF che appare come piegata.
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D. M. Mirabella, Degno,
Installazione, 2012 |
Utilizzi molto spesso dei materiali industriali particolari, il lattice, l’MDF, ci racconti come realizzi concretamente i tuoi lavori?
Io sarei dispostissimo a delegare tutto quello che è l’operare, la manualità dato che personalmente non apprezzo molto l’aspetto tecnico del lavoro.
Nonostante tutto so fare, e faccio quasi tutto nei miei lavori ma quello appartiene ad una mia attitudine “cinetica”. Insomma, non so stare fermo.
La tua residenza è all’Ex Lanificio Luciani dove lavori insieme ad altri artisti emergenti e non. Cosa ti ha dato un’esperienza del genere?
Ormai sono tre anni che sto all’ Ex-Lanificio e sono tre anni che lavoro come assistente dell’artista Pietro Fortuna, con cui ho stretto un forte rapporto amicale. Divido lo studio con Vincenzo Franza e, fino alla sua partenza per Londra, Mauro Vitturini.
In questi tre anni, noi quattro abbiamo lavorato sempre insieme, come una sorta di comunità particolarmente felice. Nel novembre 2012 alla Temple University a Roma, abbiamo anche fatto una bella mostra insieme che ha confermato il nostro affiatamento.
È un’esperienza particolare e sempre stimolante. Penso che sia fondamentale per la crescita questo scambio continuo. Il fatto di essere in compagnia significa avere una responsabilità nei confronti dell’altro e questo sembra essere alla base del lavoro di artista.
A febbraio hai partecipato con il collettivo ArtNoise al Festival della creatività all’Ex Mattatoio del Macro Testaccio. La tua opera in particolare ha ricevuto una menzione speciale, in cosa consisteva?
Sì esatto, il collettivo curatoriale ArtNoise, sorto dall’omonima, ottima, rivista online, ha realizzato questo progetto dal titolo Ortica. Organic Theme in contemporary art per il Festival delle Creatività.
Il mio lavoro in particolare è stato curato da Daniela Cotimbo in quanto erano 8 curatrici per 8 artisti. Il lavoro consisteva in una luce sagomata che correva da una parte della stanza all’altra e veniva intercettata dall’alto da sporadiche cadute di polvere. Penso sia stata quella riflessione che non avevo ancora ben assimilato. L’opera consisteva in due elementi già esistenti, la luce e la polvere, di conseguenza io non dovevo apportare niente ma solo sottolinearli. Questi due elementi, da soli, riuscivano a fermare lo sguardo, creavano una sorta di muro, dove lo spettatore si fermava per mettere a fuoco questa pochezza che lo avvolgeva.
Il progetto Ortica ha poi vinto il premio per le Arti visive e la commissione ha deciso di darmi una menzione speciale per il lavoro presentato.
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D. M. Mirabella, Tutto aperto tutto chiuso, Installazione, 2013 |
Successivamente invece hai esposto insieme a Mauro Vitturini a Palazzo Lucarini a Trevi per la mostra Preuspposti per un dialogo inesatto. Cosa avete realizzato per quell’occasione?
La mostra è stata curata sempre da Daniela Cotimbo e consisteva in un dialogo fra Mauro Vitturini e me, in passato avevamo fatto insieme anche un’altra mostra intitolata Diasige (2011). In questo caso abbiamo rinnovato l’idea e abbiamo messo l’accento su come un dialogo possa essere fondamentalmente valido anche nelle sue inesattezze. È molto bello il video omonimo che abbiamo fatto insieme. Dentro una stanza del museo siamo proiettati ciascuno in un angolo. Mentre io cerco continuamente di dialogare con Mauro lui non risponde se non tramite sottotitoli.
La curatrice della mostra è stata molto presente e sicuramente partecipe in modo profondo al lavoro finale. Oltre che abile a intercettare nelle nostre così profonde differenze caratteriali un fil rouge inaspettato ma direi presupposto.
A questo proposito, in base alla tua esperienza, come dovrebbe essere il rapporto fra artista e curatore?
Non lo so ancora bene, però mi sono reso conto che sicuramente ci deve essere grande sintonia. Il curatore che non ti conosce bene o che non è molto interessato alla costruzione di un’affinità di intenti non ha molto da offrire.
Domanda inflazionata forse ma in quanto giovane storica dell’arte mi interessa molto: cosa significa per te essere un giovane artista emergente in una realtà come Roma?
Non so se sia peculiare di Roma ma sento che in questa città mi manca molto lo scambio umano. Non mi piace il fatto di non scambiarsi idee e opinioni con altri artisti. Mi trovo sempre di più a rapportarmi con curatori, critici o comunque persone che si occupano di arte ma dall’altra parte. Io invece amerei tantissimo capire cosa pensano gli altri artisti.
Ci puoi annunciare in anteprima nuovi progetti o nuove collaborazioni?
Anche se in questo momento ho diverse idee per la testa, vorrei prendermi un periodo per rinnovarmi. Ho bisogno di mettermi a pensare, riflettere su quello che ho realizzato, anche per non sottostare a una sorta di bulimia produttiva.